questa non è una recensione
Pictures from home di Larry Sultan è uno dei fotolibri più influenti degli anni ‘90. Potrei attaccare a recensirlo e a descrivere le sue numerose qualità e perdermi in una serie di meritati complimenti sulla bellezza delle immagini. Invece taglio corto e mi limito a consigliarvi spudoratamente di comprarlo1, perché non voglio farvi una classica recensione come quelle che insegnano a fare in seconda media. Voglio parlarvi di un paio di righe nelle prime pagine del libro e di come, seppur non in maniera coreografica e spettacolare, mi abbiano segnato.
Siamo nel primo capitolo — pur essendo a tutti gli effetti un libro di fotografie è organizzato in capitoli — e Sultan, citandosi durante una discussione con suo padre, scrive:
I love making pictures, even if most of the results are lousy (Mi piace creare immagini anche se la maggior parte dei risultati è uno schifo).
primi dubbi
Quando ho letto questa frase non mi ha colpito o, meglio, non mi sono reso subito conto di quanto mi avesse colpito. Non è particolarmente originale: chiunque abbia scattato qualche fotografia con intenzioni almeno semiserie si è sentito così almeno una volta vedendo l’enorme mole di scarti. Eppure in qualche modo ha continuato a perseguitarmi.
Ho cercato di razionalizzarla, di smontare questa frase, di capire perché riaffiorasse nel tempo. La prima spiegazione l’ho cercata proprio in questa sua apparente banalità. Io ho una passione per le frasi fatte, i proverbi ma in questo caso non stava in piedi: non suona come “Non ci sono più le mezze stagioni”, non gioca nello stesso campionato di “Tutto il mondo è paese”.
Sarebbe più scenografico dirvi che dopo questo fallimento ho passato giorno e notte ad arrovellarmici,che ho messo un post-it sullo specchio del bagno per sincerarmi del fatto che fosse il mio primo pensiero la mattina, ma non è così. Nulla di tutto questo, per fortuna, però ho continuato a pensarci fino a darmi una seconda risposta. Ho ipotizzato che ad avermi colpito sia stato il contesto: perché in testa ad un libro splendido l’autore mi dice che la maggior parte delle sue immagini fa schifo? È un problema interessante e di getto si potrebbe pensare alle tipiche insicurezze di un artista. Sembra una strada promettente: il mio interesse per questa frase non sarebbe altro che il riflesso di un mio disaccordo. Questa frase mi tormenta perché credo sia falsa e posso trarne qualche frasetta sul credere in sé stessi, sul resistere alla sindrome dell’impostore e sull’importanza di non mollare mai. Tutto molto bello, insomma, ma non funziona.
cambio di prospettiva
Mi sono convinto in fretta del fatto che non è nemmeno questo il motivo per cui questa frase mi è rimasta in testa. Anche questo secondo giro si è rivelato un vicolo cieco ma non me la posso cavare dicendovi che è solo un fattore di suono come con “Non ci sono più le mezze stagioni”. La crepa in tutto questo piacevole impianto è che sono profondamente convinto del fatto che Sultan avesse ragione e che davvero la maggior parte delle sue foto facesse schifo. Questa considerazione è abbastanza sorprendente considerando che, ribadisco, Pictures from home è un libro bellissimo, ma è stata una svolta e per questo mi tocca andare a fondo delle motivazioni che mi hanno spinto a prenderlo sulla parola.
Gli credo perché vedo quanto sia bello questo libro ma intuisco anche quanto sia difficile portare a termine l’idea che ne sta alla base. A questo punto sarebbe anche ora di dirla anche se non questa è una recensione: Sultan cerca un modo diverso di rappresentare i suoi genitori.
La questione non è banale come può sembrare a freddo e si merita un libro. È vero che fotografare la propria famiglia è un’esperienza comune anche per chi non è appassionato e anzi, per molti è l’unico contesto in cui si scattano fotografie. D’altro canto fotografare la propria famiglia non è per nulla facile: un po’ perché le persone non sono mai soggetti banali, un po' perché spesso i rapporti sono complicati e mettere una fotocamera in mezzo non li risolve. Per conciliare questa enorme diffusione e questa difficoltà di base con il passare degli anni le fotografie tra le quattro mura domestiche sono diventate estremamente codificate. Abbiamo tutti in mente gli standard utili da riprodurre alla bisogna: la tavolata, la torta con le candeline al buio, in ferie la torre di Pisa alle spalle. Abbiamo tutti in mente anche cosa ci sia aspetta che si faccia se ci troviamo davanti all’obiettivo: mettersi in posa, per lo meno sorridere.
al cuore delle foto di famiglia
Detta in altri termini la gran parte delle volte che scattiamo, o siamo ritratti, in una fotografia di famiglia in realtà non stiamo facendo altro che pescare da un’accurata selezione di foto preconfezionate. Magari non sappiamo descriverla compiutamente e nessuno si è mai dovuto disturbare a spiegarcela. La conosciamo perfettamente grazie all’abitudine del gesto — davanti a una torta con le candeline si deve fare una foto — e alla stratificazione delle foto di famiglia che vediamo, reali o immaginarie che siano. Il punto di contatto tra tutte queste immagini, più che l’estetica o la forma, è la loro natura inoffensiva: una foto di famiglia standard per essere tale deve nascondere le tensioni, le imperfezioni, le inadeguatezze che forse possiamo permetterci vengano viste ma mai rappresentate.
Questa limitazione ha un suo senso e anche non apprezzandola non si può pensare che sia lì per caso: l’album di famiglia è stato un piccolo mezzo di propaganda privata molto prima di Instagram e la Kodak è campata un secolo abbondante pubblicizzando immagini di momenti di felicità, non di autocoscienza sulle dinamiche domestiche. Questa limitazione da prontuario per risolvere un problema fotografico è diventata un fenomeno collettivo. Si può dire che, tra pressioni sociali più o meno accentuate e spot pubblicitari, la possibilità di fare queste fotografie è promossa a parte integrante dell’essere una famiglia felice. Questo è un fortissimo richiamo emotivo facilmente piegabile ad ad altri scopi.
Sultan vede la pervasività di queste immagini convenzionali, vede la loro capacità d’insinuarsi nella vita domestica e vede come possano essere strumentalizzate. Sultan vede tutto questo, ed è la considerazione che fa partire la storia di questo libro, una storia che inizia violando queste norme quando fotografa i propri genitori.

valicare il segno
Pictures from home esce dal confine delle foto classiche e al di fuori di questi scatti preconfezionati trova ad aspettarlo l’ignoto. Un termine estremo, ammetto, ma che rende pienamente conto di cosa succeda al di fuori della mitologia degli snapshot, una mitologia che nasce per difenderci dalle rappresentazioni meno filtrate di casa nostra, che ideale non può essere. Ora come posso dire che davanti a uno sforzo del genere il problema di Sultan è che si sottovalutasse? Magari è anche vero, magari l’autostima era un problema, ma sarebbe come dire che dopo trenta rampe di scale si è sudati perché non si è creduto abbastanza nel trentunesimo pianerottolo. Con “la maggior parte dei risultati fa schifo” Sultan non fa altro che riconoscere la difficoltà nell’usare la fotografia per superare questo limite e non posso non credergli. Il mio minuscolo viaggio interiore per capire la passione per questa frase deve passare, come l’autore, per questo confine.
Sultan ha l’acume di evidenziarlo mettendo nel libro oltre ai suoi scatti delle foto d’archivio della sua famiglia, saldamente all’interno della mitologia familiare. Le foto di lui bambino sono intercambiabili con quelle di altre dozzine di famiglie, al punto che se non si ha l’occhio fine per le fisionomie dei suoi genitori potremmo tranquillamente pensare, vedendo le foto senza ulteriori precisazioni, che non siano sue. Le foto scattate da lui, al contrario, sono inconfondibili. Non tanto per la sua bravura — che è innegabile, non penso certo che avrei potute farle io — quanto per il fatto che rappresentano la sua famiglia, non l’applicazione di un modello. Come esempio eclatante posso prendere una delle foto famose di questo lavoro: tanto per capirsi non serve conoscerla o averla sotto gli occhi. Quanti tra voi possono dire che troverebbero spontaneo fotografare il proprio padre mentre fa pratica con lo swing davanti alla TV a piedi nudi su della terrificante moquette a pelo lungo color verde prato? Non lo so, magari tra voi c’è chi mi scriverà dicendo di avere un padre che è campione interregionale di Wii Golf ma non credo che qualcuno tra i miei ascoltatori possa mettere quella moquette a terra. Siamo una nazione di piastrellisti.
Questo è solo un esempio e non vorrei che pensaste che il tono del libro sia tutto così, vagamente grottesco. Mi è servito ad evidenziare come una foto del genere non essendo uscita dallo stampo non può essere asservita ad altri scopi come la glorificazione acritica della Famiglia-Tradizionale-Statunitense tanto cara a Reagan e tanto invisa a Sultan. Non può essere asservita perché è il genere di fotografia che ha qualcosa da dire a differenza della foto standard, quelle un po' di plastica.
Certo, possiamo buttarla sull’antropologico e cercare nelle convenzioni le fondamenta della società che le ha prodotte: con gli anni ‘80 e il loro immaginario estetico è facilissimo. Possiamo buttarla sullo storico e restare affascinati dalla patina del tempo: con questo libro è già abbastanza facile visto che le foto hanno tutte più di trent’anni. Ma non è questo il tipo di comunicazione che ho in mente quando vi dico che queste foto non dicono nulla. Parlo di quello che le foto hanno da dire non per effetto dell’essere curiosi oggetti di una certa epoca, ma in quanto opere di una certa persona, poco importa se celebre.
nuove visioni vecchie difficoltà
La creazione di questo tipo di immagini è complessa, piena di ostacoli: uno scontro in piena regola tra l’immagine di una famiglia e l’immagine di un ideale di famiglia. Senza questo scontro forse la maggior parte delle immagini non avrebbe fatto schifo, ma sarebbero state tutte piacevolmente anodine.
Forse non vi ho convinto del tutto, forse vi ho distratto con la questione della moquette. Ma comincia ad esserci un senso nelle mie esplorazioni: è proprio il fatto che l’asticella sia così in alto che dà respiro a Pictures from home ed è il profondo amore per la creazione di immagini a rendere sostenibile questo sforzo. La frase inizia a quadrare.
Questo sforzo è sì letteralmente d’immaginazione — creare immagini nuove e non semplici copie — ma è pieno di risvolti concreti. Sappiamo tutti che la vita in famiglia non è la foto dove si soffiano le candeline e nonostante questo vederla rappresentata è un’esperienza più intensa di vederla e basta: non siamo abituati a vederci in immagini domestiche che non siano tipizzate. Le foto di Sultan non necessariamente più sgradevoli: basta la loro novità per causare reazioni contrariate, anche e soprattutto da parte dei suoi genitori. Non stiamo parlando di sconosciuti, di foto in laboratorio: ogni foto porta con sé il bagaglio delle relazione genitore–figlio e il bagaglio di questo lavoro fotografico. Al cospetto delle immagini scattate dal figlio Sultan padre gli chiede perché voglia far sembrare lui e sua moglie più vecchi e miserevoli di quanto effettivamente siano: per questo s’irrigidisce, antagonizza durante gli scatti successivi. Sultan è un figlio sensibile e davanti a queste resistenze si chiede perché l’ansia gli faccia ripetere le stesse fotografie, perché le idee che gli vengono sembrino inesorabilmente brutte dopo il giorno dopo.
Sono solo alcune delle difficoltà che fanno in modo che, sì, “most of the results are lousy”. Si combatte contro l’abitudine visiva che spinge a replicare il già visto, si combatte contro i soggetti, si combatte contro i propri demoni. Tutto questo succede quando si è alla ricerca di un nuovo punto di vista e si trovano soprattutto vicoli ciechi. Visto che parliamo di fotografia e non d’ingegneria non c’è nemmeno la consolazione, quando si intuisce che una strada sia quella buona, di poterne averne la certezza. Non ci sono lampadine che si illuminano, non ci sono soluzione esatte, solo la speranza che in fondo qualcosa di buono si possa trovare. Non le ho nemmeno nel mio scontro contro questa citazione, ma sento di essere sulla strada giusta.
che cosa rimane
Le poche immagini che sopravvivono, però, hanno una cifra dovuta proprio a questo lavoro difficile e ingrato, ne portano i segni. Sono libere da quel modo di vedere talmente abituale, radicato nella nostra cultura visuale, da essere invisibile. Non si può raggiungere un risultato del genere senza che la maggior parte delle fotografie faccia schifo. Non si può intraprendere uno sforzo del genere senza provare un profondo amore per la creazione di immagini.
Le poche immagini che sopravvivono riescono nell’intento originale dell’autore. Non posso dire che Larry Sultan sia riuscito con il suo libro a sradicare gli stereotipi familiari: oggi come nel 1992 davanti alla fotocamera ci si mette in posa davanti alla torre di Pisa con il braccio alzato e così via, in fondo. Ha aperto però una fessura mostrando attraverso la sua famiglia, con questo libro, quanto sia sottile l’illusione delle immagini domestiche standard. Una volta viste queste immagini è impossibile non chiedersi quale sia lo spessore del concetto di famiglia ideale in sé, di quando abbia senso inseguire questo fantasma facile preda di chi voglia usarlo per i propri interessi, che sia Ronald Reagan o il reparto marketing del Mulino Bianco (che, ricordo, nessuno ha mai visto insieme nella stessa stanza).
Sultan avrebbe potuto scrivere spiegando tutto questo in un saggio o rilasciando un intervista e non sarebbe stato così efficace. Lo spiraglio aperto dall’accettare che la maggior parte delle immagini di Sultan facesse schifo mi ha portato qui, alla fine. Per questo specifico contesto, che tira in ballo l’immaginario domestico, la potenza della fotografia è imparagonabile ed evidenziata proprio dall’abbinamento ai testi. Allo stesso modo con cui il contrasto tra foto d’autore e di repertorio ci dice qualcosa di importante sulla natura delle fotografie il contrasto lettura e visione in questo libro rivela qualcosa di fondamentale sulla fotografia. Senza che ci sia una qualche zoppia autoriale nei testi — permettetemi di evidenziarlo dato che è rarissimo — la fotografia mostra una maggior capacità di sondare certi aspetti.
una nuova consapevolezza
“I love making pictures, even if most of the results are lousy” è solo un frammento, una risposta che Sultan dà a suo padre quando gli chiede perché si ostini in tal modo a cercare questo genere di fotografie. Sono poche parole nemmeno troppo originali. Però ho capito perché mi sono rimaste in testa, alla fine. Non perché sia facile immedesimarsi, non perché sono contenute in un libro splendido.
Mi affascinano perché racchiudono, in pochissimo spazio, una prospettiva sul fare fotografia che va molto oltre Pictures from home, una casa in California, la visione di Sultan: se si ha la pazienza, la volontà di starle dietro nonostante la maggior parte dei risultati faccia schifo questa è in grado di mostrare alcune pieghe del mondo inaccessibili altrimenti. È anche per questo che nonostante i suoi limiti tecnici, nonostante le difficoltà che offre in ogni occasione, nonostante i dubbi che instilla in chi la pratica la fotografia è capace di farsi amare.
Pictures from home è lì a dimostrarlo e io, forse, con questa certezza, posso andare avanti.
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Peraltro è un buon momento per farlo perché è in uscita la seconda ristampa presso Mack e nel momento in cui scrivo la prima costa circa il triplo. La prima edizione del 1992 non l’ho mai vista a meno di 300 USD. ↩︎